Diritto del lavoro
Una miriade di leggi, di contratti individuali e collettivi di lavoro
regolano i rapporti di lavoro, sia quelli caratterizzati dalla
subordinazione del lavoratore al datore di lavoro, sia quelli
caratterizzati dalla autonomia del lavoratore, sia quelli
caratterizzati da un rapporto duraturo nel tempo, sia quelli, invece,
caratterizzati da una durata prestabilita.
Il lavoro subordinato a tempo indeterminato
( nel linguaggio comune "lavoro dipendente") è la tipologia
lavorativa più frequente e consiste in uno scambio tra
l'attività lavorativa (che viene prestata dal lavoratore) e una
retribuzione (che viene invece versata dal datore di lavoro). Questo
rapporto, che è tendenzialmente duraturo nel tempo, è
caratterizzato dal potere del datore di lavoro di impartire ordini al
lavoratore (che questi deve in linea di massima eseguire) e di
sanzionare i lavoratori quando questi non rispettano le disposizioni
che hanno ricevuto.
Si tratta della c.d. posizione di subordinazione.
Riferimenti Normativi:
Legge 28/06/2012, n. 92 - Art. 1
Legge 24/06/1997, n. 196
D.Lgs. 08/04/2003, n. 66
Statuto dei lavoratori Legge 20/05/1970, n. 300
Legge 15/07/1966, n. 604
Codice Civile - Art. 2087
Codice Civile - Art. 2094
Codice Civile - Artt. 2103, 2105-2107, 2109-2110, 2112
Legge 04/11/2010, n. 183 - Artt. 30-32
Secondo l’art. 2094 del codice civile (che definisce la figura
del lavoratore subordinato), questa tipologia di contratto prevede che
il lavoratore svolga la propria attività “alle dipendenze
e sotto la direzione” del datore di lavoro.
A prescindere dalla terminologia utilizzata dal lavoratore e dal datore
di lavoro nel contratto che li lega, il rapporto si considera di tipo
subordinato tutte le volte che, in sostanza, l’attività
viene svolta secondo alcune modalità che lasciano intendere che
il lavoratore sia inserito nell’organizzazione produttiva
dell’impresa in modo tale da risultare di fatto alle dipendenze
del datore di lavoro.
Tra questi parametri si ricordano la presenza di un orario fisso
piuttosto che di una postazione assegnata dall’imprenditore, la
circostanza per la quale il lavoratore riceve ordini dal datore di
lavoro ed è tenuto ad eseguirli, piuttosto che il potere del
datore di lavoro di sanzionare i lavoratori.
Inoltre il rapporto si caratterizza per la sua stabilità nel
tempo. Infatti, salvo le eccezioni previste dalla legge (vedi la scheda
sul Lavoro subordinato a tempo determinato), il contratto di lavoro
subordinato non può prevedere un termine di durata e quindi si
considera a tempo indeterminato.
La regolamentazione del rapporto e i contratti collettivi di lavoro
La regolamentazione del rapporto di lavoro subordinato si articola su tre livelli.
In primo luogo le norme di legge che disciplinano in via generale i diritti e i doveri dei lavoratori.
Ad un livello successivo, poi, si colloca la disciplina contenuta nei contratti collettivi di lavoro.
I contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) sono degli accordi
tra le associazioni di categoria che rappresentano da un lato i datori
di lavoro e dall’altro i lavoratori.
All’interno di questi accordi quadro sono contenute le norme che
stabiliscono una disciplina minima dei rapporti di lavoro per tutti i
lavoratori e gli imprenditori che operano in un determinato settore
produttivo.
Ad esempio. Il CCNL c.d. dei Bancari, contiene le regole minime alle
quali sono sottoposti tutti i contratti stipulati tra le imprese
creditizie e i loro dipendenti.
Queste regole possono essere modificate dal singolo contratto di lavoro
che lega il singolo lavoratore al proprio datore di lavoro (il c.d.
contratto individuale di lavoro) e tuttavia queste modifiche possono
essere solo migliorative rispetto al contenuto del CCNL. Basta pensare,
ad esempio, ai livelli salariali minimi, agli orari di lavoro o
piuttosto che ai termini di preavviso per dimissioni e licenziamenti.
Le mansioni
L’insieme dei compiti affidati al lavoratore si definiscono
mansioni. In pratica le mansioni sono tutte quelle attività che
il lavoratore è tenuto a svolgere e che vengono per questo
ricompensate con la retribuzione da parte del datore di lavoro.
Al momento dell’assunzione il datore di lavoro assegna al
lavoratore le mansioni scegliendole all’interno di quelle
previste dal contratto collettivo a seconda del livello e
dell’inquadramento del dipendente. Infatti, all’interno del
contratto collettivo, ad ogni livello di inquadramento sono associati
una serie di compiti tipici che possono essere assegnati al lavoratore.
Nel corso del rapporto, però, il datore di lavoro può
modificare le mansioni che aveva in precedenza attribuito al singolo
lavoratore, assegnandone di nuove. Nel fare questo, però,
l’imprenditore deve fare in modo che le nuove mansioni siano
equivalenti a quelle precedenti. Diversamente si realizza il fenomeno
del c.d. demansionamento che può costituire la base per una
richiesta di risarcimento del danno da parte del lavoratore.
La legge, invece, non vieta in modo assoluto al datore di lavoro di
assegnare ai dipendenti delle mansioni superiori, appartenenti quindi
ad un inquadramento superiore.
In questa ipotesi, però, l’imprenditore è tenuto a
riconoscere al lavoratore una retribuzione corrispondente
all’inquadramento superiore.
Inoltre questo spostamento non può durare per più di tre
mesi consecutivi perché diversamente il lavoratore acquisisce
automaticamente e definitivamente un inquadramento superiore con la
relativa retribuzione.
Orario di lavoro
Anche l’orario di lavoro (così come le mansioni) viene
stabilito dal datore di lavoro. Ovviamente anche in questo caso
sarà necessario rispettare i limiti stabiliti dalle norme di
legge.
L’orario settimanale di lavoro incontra il limite massimo delle
40 ore (così come stabilito dal la legge - D.Lgs n. 66 del 2003).
Tuttavia la contrattazione collettiva può intervenire per
fissare limiti meno rigidi. In particolare, i contratti collettivi di
lavoro possono arrivare a stabilire un limite massimo fino a 48 ore
settimanali.
Tuttavia questi volumi di lavoro possono essere mantenuti soltanto per
una periodo non superiore ai 4 mesi che può arrivare sino a 12
mesi se vi sono delle particolari ragioni tecniche oppure connesse con
l’organizzazione del lavoro.
Retribuzione
La retribuzione è la somma di denaro che spetta al lavoratore
come corrispettivo dell’attività lavorativa. Nel
linguaggio comune per riferirsi alla retribuzione vengono spesso
utilizzati come sinonimi i termini salario, stipendio o paga.
Il rapporto di lavoro è strutturalmente oneroso, nel senso,
cioè, che si presume che sia stata pattuita una somma come
corrispettivo dell’attività svolta dal lavoratore.
La retribuzione deve essere proporzionale alla quantità e alla
qualità del lavoro. Ciò significa che l’importo del
salario può (e deve) tenere conto non soltanto della durata
dell’orario di lavoro ma anche delle mansioni che vengono svolte.
Per questo motivo i livelli minimi retributivi (i c.d. minimi salariali
o minimi sindacali) vengono stabiliti, per ciascun inquadramento
lavorativo, all’interno del contratto collettivo nazionale di
lavoro. L’imprenditore e il lavoratore sono poi liberi di
stabilire l’entità della retribuzione a patto di
rispettare questi limiti minimi.
Ad esempio, se nella lettera di assunzione viene indicato uno stipendio
inferiore a quello indicato nelle tabelle contenute nel CCNL il
lavoratore potrà pretendere le eventuali differenze retributive
e rivolgersi al Giudice per vedere soddisfatti i suoi diritti.
Il periodo di prova
Il periodo di prova si colloca nella fase iniziale del rapporto di
lavoro tra un dipendente e il suo datore di lavoro ed è
finalizzato a verificare se il lavoratore possiede i requisiti
professionali per lo svolgimento delle mansioni che gli sono affidate.
Perché si svolga questa fase è necessario che venga
inserito nel contratto individuale un patto di prova che determina
anche la durata del relativo periodo all’interno dei massimi
individuati dal CCNL. È infatti il contratto collettivo che
stabilisce quanto può durare il periodo di prova a tutela dei
lavoratori.
Nell’ambito di questa fase il datore di lavoro può
recedere dal contratto senza addurre alcuna motivazione se non
specificare che non considera superata la prova e la valutazione
dell’imprenditore non può essere sindacata dal lavoratore.
Superata la prova, invece, il datore di lavoro potrà recedere
soltanto nei casi in cui è ammesso il licenziamento individuale
(vedi le schede sul Licenziamento disciplinare e Licenziamento per
motivazione economica)
La conclusione del rapporto di lavoro
Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come
disciplinato, prevede per il lavoratore una serie di garanzie che hanno
la funzione principale di assicurare al dipendente una stabilità
professionale.
Per questo motivo in linea di massima il rapporto può venire
meno soltanto per le dimissioni del lavoratore oppure nei casi in cui
è consentito il licenziamento individuale (vedi le schede sul
Licenziamento disciplinare e Licenziamento per motivazione economica) o
collettivo (vedi la scheda sul Licenziamento collettivo).
Lavoro subordinato a tempo determinato
Il contratto di lavoro subordinato ha lo scopo di garantire una
stabilità una stabilità nel tempo del rapporto. Per
questo la normativa di riferimento ha consentito sempre in maniera
limitata che il rapporto di lavoro potesse avere una durata
predeterminata dalle parti e conseguentemente consente la fissazione di
un termine soltanto in presenza di una serie di condizioni che devono
essere indicate specificamente nel contratto (la c.d. causale).
In questi casi si parla di contratto a tempo determinato che si differenzia dal contratto a tempo indeterminato in quanto da vita ad un rapporto di lavoro che viene a concludersi nel momento indicato nel contratto stesso.
La legge, per evitare di rendere eccessivamente precaria la posizione
del lavoratore, stabilisce anche dei limiti di durata massima di questo
tipo di contratti e soprattutto detta regole molto rigide per il
rinnovo dei contratti a tempo determinato e soprattutto per i casi in
cui tra lo stesso imprenditore e il medesimo dipendente vengano
conclusi successivamente diversi contratti a tempo determinato.
E’ il fenomeno della c.d. reiterazione del contratto a termine.
Riferimenti Normativi:
Legge 28/06/2012, n. 92 - Art. 1 ( c.d. riforma Fornero )
Legge 24/06/1997, n. 196
D.Lgs. 08/04/2003, n. 66
Statuto dei lavoratori Legge 20/05/1970, n. 300
Legge 15/07/1966, n. 604
Codice Civile - Art. 2087
Codice Civile - Art. 2094
Codice Civile - Artt. 2103, 2105-2107, 2109-2110, 2112
Legge 04/11/2010, n. 183 - Artt. 30-32
D.L. 20/03/2014, n. 34 - Art. 1
Il contratto a tempo determinato prima della Riforma Fornero
Prima della riforma del mercato del lavoro (c.d. Riforma Fornero) la
disciplina del contratto a termine era particolarmente rigida, proprio
per evitare abusi da parte del datore di lavoro.
Si prevedeva infatti che il contratto a tempo determinato poteva essere
stipulato soltanto in presenza di motivi di carattere
tecnico-produttivo (ad esempio per fare fronte ad un carico di lavoro
particolarmente pesante e temporaneo) per sostituire un lavoratore
assente per un periodo specifico (ad esempio per sostituire
temporaneamente una lavoratrice in maternità, la c.d.
sostituzione di maternità).
La legge stabiliva poi che la motivazione per la quale
l’imprenditore ricorreva al contratto a termine venisse indicata
nel contratto stesso per iscritto. Si tratta della c.d. causale. Per i
contratti con durata inferiore ai tre anni era poi consentita una sola
proroga motivata. Nel caso in cui il contratto veniva prorogato (o
rinnovato) senza rispettare i limiti imposti dalla legge, rapporto si
trasformava in rapporto a tempo indeterminato. Il rapporto si
concludeva con lo spirare del termine ma il lavoratore conservava il
diritto di interromperlo presentando le proprie dimissioni. Per contro
il datore di lavoro, se ricorrevano le condizioni (vedi le schede sul
Licenziamento disciplinare e Licenziamento per motivi economici), aveva
sempre la possibilità di recedere dal contratto attraverso il
licenziamento del dipendente.
Il contratto a tempo determinato dopo la Riforma Fornero
La regolamentazione del rapporto a tempo determinato è
profondamente cambiata in seguito alla c.d. Riforma Fornero (attuata
con la Legge n. 92/2012), successivamente integrata dal c.d. decreto
lavoro (D.L. n. 76 del 2013) e nuovamente ritoccata dal D.L. n. 34 del
2014.
Sono infatti previste delle deroghe importanti all’obbligo di
specificare nel contratto i motivi che legittimano l’inserimento
del termine (la c.d. causale). Si tratta della figura del contratto a
tempo determinato acausale.
Attualmente è consentita l'apposizione di un termine alla durata
del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a 36 mesi,
comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro o
utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di
mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia
nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.
Il numero complessivo di rapporti di lavoro costituiti da ciascun
datore di lavoro non può essere superiore al 20% dell'organico
complessivo.
Per le imprese che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.
Il termine deve però sempre risultare, direttamente o indirettamente, da un atto scritto.
Va sottolineato che il D.L. n. 76/2013 ha eliminato il divieto
(precedentemente introdotto dalla Riforma Fornero) di prorogare i
contratti a termine acausali ed anzi, il termine del contratto a tempo
determinato può essere, con il consenso del lavoratore,
prorogato solo quando la durata iniziale del contratto è
inferiore a 3 anni ma in questo caso la proroga è ammessa fino
ad un massimo di 8 volte sempre che la proroga si riferisca alla stessa
attività lavorativa per la quale il contratto è stato
stipulato a tempo determinato.
La durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere
superiore ai tre anni superati i quali il rapporto si trasforma in un
rapporto a tempo indeterminato.
Infine possono essere assunti a termine senza necessità di specifici motivi:
- i dirigenti
- lavoratori che hanno optato per il differimento del pensionamento
- nel comparto del turismo per Attività speciali e fino ad un massimo di tre giorni
- gli iscritti alle c.d. liste di mobilità
Sanzioni per l’utilizzo del contratto a tempo determinato in casi non consentiti
Vi sono poi dei casi in cui è vietato assumere con un contratto a termine, in particolare:
- per sostituire un lavoratore in sciopero;
- quando nei precedenti sei mesi l’azienda ha fatto ricorso a licenziamenti collettivi, riduzioni di orario o altre forme di sostegno come la cassa integrazione guadagni;
- quando l’impresa non ha svolto le attività di valutazioni dei rischi ai sensi della normativa in materia antinfortunistica.
Quando l’imprenditore assume con contratto a termine violando le
norme appena richiamate (e quindi quando dovrebbe in realtà
assumere con contratto a tempo indeterminato) il contratto a termine si
trasforma automaticamente in un contratto a tempo indeterminato. Questo
fenomeno viene tecnicamente definito come conversione del contratto a
tempo determinato.
In questa ipotesi il lavoratore ha anche diritto ad una
indennità onnicomprensiva (a titolo di risarcimento dei danni)
che viene stabilita dal Giudice.
L’indennità può variare da un minimo di 2,5 ad un
massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale
di fatto. Per stabilire la somma il Giudice dovrà considerare:
- il numero dei lavoratori impiegati nella ditta
- l’anzianità di Attivitào del lavoratore
- le condizioni delle parti in causa e il loro comportamento.
Il limite massimo dell’indennità viene ridotto della
metà se la contrattazione collettiva prevede l’assunzione,
anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con
contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.
Scadenza del termine e contratti successivi
A rigor di logica, una volta scaduto il termine indicato nel contratto
il rapporto di lavoro e conseguentemente la prestazione di lavoro
dovrebbe interrompersi, salva la facoltà del datore di lavoro di
prorogare il contratto per una durata complessiva (dell’intero
rapporto compreso quello precedente) non superiore a 36 mesi.
Se, in assenza di proroga, la prestazione continua ad essere fornita la
legge stabilisce una sanzione per il datore di lavoro che è
tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione di stipendio
pari al:
- 20% per ogni giorno fino al decimo giorno successivo alla scadenza
- 40% per ogni giorno ulteriore.
Il rapporto si trasforma poi in un rapporto a tempo indeterminato se:
- la prestazione continua per più di 30 giorni dal momento della
scadenza (e in assenza di proroga) e il contratto a termine aveva una
durata inferiore a 36 mesi;
- viene superato il termine complessivo di durata di 36 mesi
comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di
interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro (salvo
che si tratti di lavoratori c.d. stagionali);
- la prestazione continua per più di 30 giorni dal momento della
scadenza (e in assenza di proroga) in tutti gli altri casi.
La legge stabilisce poi dei vincoli per il datore di lavoro che intende
riassumere (con contratto a tempo determinato) un lavoratore che aveva
già precedentemente avuto alle sue dipendenze.
In particolare il datore di lavoro deve comunque attendere almeno:
- 10 giorni dalla scadenza del precedente contratto se questo aveva durata inferiore o pari a 6 mesi
- 20 giorni dalla scadenza del precedente contratto se questo aveva durata superiore a sei mesi.
Questi limiti non si applicano:
- nei casi individuati dalla contrattazione collettiva;
- per i lavoratori impiegati in attività stagionali (anche
qualora si tratta di due assunzioni successive a termine, senza
interruzione).
In caso di mancato rispetto di questi termini il nuovo rapporto si trasforma in un rapporto a tempo indeterminato.
Nel caso in cui, invece, vi sono due assunzioni successive a termine
senza soluzione alcuna di continuità, il rapporto di lavoro si
considera a tempo indeterminato a partire dalla stipulazione del primo
contratto.
Il contratto a termine dopo il c.d. Jobs Act
La disciplina del contratto a termine è stata profondamente
rivoluzionata dal c.d. Jobs Act (D.L. 34/2014 convertito in legge con
modificazioni dalla Legge 16 maggio 2014, n. 78
).
L’intervento del governo ha di fatto eliminato il requisito
(richiamato dalla normativa precedente) della specificazione
all’interno del contratto della c.d. causale (ovverosia
l’indicazione dei motivi organizzativi o produttivi che il datore
di lavoro pone a fondamento della necessità di ricorrere a
rapporti precari).
In particolare la legge oggi consente di apporre un termine al
contratto di lavoro senza indicare la causale e tale termine non
può essere superiore a 36 mesi, comprensivi di eventuali
proroghe.
Il datore di lavoro non può assumere con contratto a termine un
numero di lavoratori superiore al 20% dei lavoratori assunti con
contratto a tempo indeterminato. Questo limite non si applica ai
contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti pubblici
di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a
svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o
tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e
direzione della stessa.
In caso di violazione del limite percentuale per ciascun lavoratore, si applica la sanzione amministrativa:
a) del 20% della retribuzione, per ciascun mese (o frazione di mese
superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro) se il
numero dei lavoratori assunti in violazione del limite non è
superiore a uno;
b) del 50% della retribuzione, per ciascun mese (o frazione di mese
superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro) se il
numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale
è superiore a uno.
Il termine deve risultare da atto scritto (ovverosia deve essere
espressamente indicato nel contratto stipulato per iscritto tra il
datore di lavoro e il dipendente) direttamente o indirettamente.
Se i lavoratori complessivamente impiegati sono 5 o meno è
sempre possibile stipulare almeno un contratto a tempo determinato
Sono esenti da questo limite i contratti a tempo determinato conclusi:
in fase di avvio dell’attività (si
pensi al titolare di un punto vendita appena aperto al pubblico)
per spettacoli televisivi o radiofonici (si pensi
alla necessità di assumere dei ballerini per uno specifico show
televisivo)
con lavoratori che hanno un’età superiore ai 55 anni.
La parte della nuova disciplina oggetto del maggiore dibattito in sede
parlamentare è stata quella relativa alla proroga del contratto
a tempo determinato.
Le proroghe del contratto a termine sono ammesse (indipendentemente dal
numero dei rinnovi e a condizione che si riferiscano alla stessa
attività lavorativa per la quale il contratto è stato
stipulato a tempo determinato):
solo quando la durata del contratto sia inferiore a
tre anni (quindi se sin dall’inizio il contratto ha una durata di
36 mesi non potrà essere successivamente prorogato)
fino ad un massimo di 5 volte nell’arco di complessivi 36 mesi.
In ogni caso il rapporto a termine non potrà avere una durata superiore a 3 anni.
Resta salva la disciplina che regola la successione di contratti a tempo determinato.
Tuttavia, nel caso in cui il rapporto di lavoro tra lo stesso
lavoratore e il medesimo datore di lavoro, per effetto di una
successione di contratti a tempo determinato (ovviamente per lo
svolgimento di mansioni equivalenti) abbia avuto un durata superiore a
36 mesi il rapporto (indipendentemente dai periodi di interruzione che
intercorrono tra un contratto e l’altro) si converte in un
contratto a tempo indeterminato.
Per effettuare il calcolo della durata complessiva del rapporto per
valutare lo sforamento rispetto al limite complessivo di 36 mesi si
conteggiano anche i periodi di missione in regime di lavoro
somministrato che hanno come oggetto mansioni equivalenti.
La legge tuttavia ammette una deroga. Infatti tra le stesse parti
è possibile stipulare un ulteriore contratto a tempo determinato
ma in questo caso l’accordo deve essere siglato presso la
Direzione Provinciale del lavoro.
Lavoro autonomo :
Con il termine lavoro autonomo in regime di Partita Iva si indica
normalmente tutta quella serie di collaborazioni che legano una persona
ad un imprenditore/datore di lavoro e che non prevedono né una
posizione di sottoposizione gerarchica del collaboratore (non è
quindi presente il c.d. vincolo di subordinazione) né
l'esecuzione di un progetto come accade nelle collaborazioni a progetto
(c.d. co.co.pro), nella misura in cui il compenso viene poi addebitato
dietro emissione di una fattura.
Riferimenti Normativi:
Legge 28/06/2012, n. 92 - Art. 1
Codice Civile - Art. 2222
Lavoro autonomo, collaborazioni coordinate e lavoro subordinato: la riforma Foriero
La flessibilità di questo tipo di rapporto si presta a numerose
distorsioni e, in particolare, permette in alcuni casi di mascherare
dietro una collaborazione in forma autonoma un vero e proprio lavoro
subordinato, con tanto di orari, sottoposizione a dei superiori e
relative sanzioni in caso di inosservanza delle loro direttive.
Per evitare questi abusi la L. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero)
è intervenuta semplificando la posizione del lavoratore che si
trova nella necessità di dimostrare che la propria
attività, svolta in regime di Partita Iva, è in
realtà un vero e proprio lavoro di tipo subordinato.
Quando il rapporto si considera (cd. Presunzione) di collaborazione coordinata e continuativa
In particolare il lavoratore in regime di Partita Iva viene considerato
come un collaboratore in regime di collaborazione coordinata e
continuativa (e, quindi, come lavoratore subordinato dal momento che
mancherà la previsione di un progetto ) quando ricorrono almeno
due dei seguenti presupposti:
a) la collaborazione deve avere avuto una durata complessiva superiore
a otto mesi all’anno per almeno due anni consecutivi;
b) il compenso ottenuto dal collaboratore deve costituire più
dell’80% della somma dei compensi ottenuti dal lavoratore dal
medesimo datore di lavoro;
c) il collaboratore deve avere a disposizione una postazione fissa presso una della sedi del committente.
Quando la cd. Presunzione non si applica
Per bilanciare la rigidità di questi criteri, la legge di
riforma ha stabilito che – anche in presenza dei requisiti prima
esaminati – vi sono situazioni in cui il collaboratore a Partita
Iva non può mai essere considerato come un collaboratore
coordinato (e quindi come un lavoratore subordinato mancando il
progetto).
Si tratta delle ipotesi nelle quali il collaboratore, per eseguire i propri compiti:
• deve applicare delle conoscenze teoriche di
grado elevato che ha appreso all’interno di percorsi di
formazione specifici e significativi (si pensi ad esempio ad un master
post-universitario oppure ad un dottorato di ricerca in materie
scientifiche)
• deve essere in possesso di capacità
tecnico-pratiche che ha appreso dopo esperienze lavorative che hanno
comportato l’esercizio concreto di attività.
In altre parole, si tratta di quelle posizioni lavorative di alto
profilo per le quali è difficile ipotizzare che si sia in
presenza di un soggetto che esegue le mansioni che ordinariamente
svolgono gli altri dipendenti del medesimo datore di lavoro.
Inoltre la presunzione non si applica tutte le volte che il
collaboratore dichiara un reddito da lavoro autonomo pari a 1,25 volte
il livello minimo imponibile per il versamento dei contributi
previdenziali. Per il calcolo si deve fare riferimento ai criteri
indicati nell’art. 1, comma 3, della Legge n. 233/1990.
Infine, la presunzione non può applicarsi ai professionisti
iscritti ad un ordine professionale o altri albi o elenchi
professionali qualificati. E’ il caso di avvocati, geometri,
architetti, commercialisti, ecc.
Lavoro accessorio :
Il lavoro accessorio costituisce una categoria speciale all'interno delle collaborazioni occasionali.
Si ricorre a questo tipo di rapporto per dare una risposta ad esigenze
professionali e produttive del datore di lavoro che hanno normalmente
un carattere saltuario.
Queste collaborazioni sono regolate dalla c.d. Legge Biagi (D.Lgs. n.
276 del 2003) che in molti punti è stata poi modificata dalla
cd. Riforma Fornero (Legge n. 92 del 2012), successivamente ritoccata
per effetto dell’entrata in vigore del c.d. Decreto lavoro (D.L.
n. 76 del 2013).
Il rapporto lega appunto due soggetti:
- il prestatore di lavoro, detto collaboratore
- il datore di lavoro, detto committente.
Il vantaggio di questo tipo di rapporto è rappresentato
dal fatto che il committente può utilizzare il lavoro dei
collaboratori in modo estremamente flessibile, senza necessità
di particolari formalità e nel pieno rispetto della legge. Il
collaboratore infatti può lavorare ed essere retribuito con un
compenso esente da imposizioni fiscali e con una piena copertura INAIL
per eventuali infortuni sul lavoro e senza incidere sulla sua posizione
di disoccupato o inoccupato.
Condizioni per accedere al lavoro accessorio
In linea di massima è consentito effettuare prestazioni di
lavoro accessorio se nel corso dell'anno solare il collaboratore
percepisce complessivamente e dalla totalità dei suoi
committenti una somma non superiore a 5.050 Euro netti (somma lorda
Euro 6.740). Questo limite viene poi annualmente ritoccato sulla base
dei c.d. Indici ISTAT (utilizzati, appunto, per adeguare periodicamente
i valori monetari, ad es: gli affitti o gli assegni dovuti al coniuge
separato).
Se il committente è un imprenditore commerciale (si pensi al
titolare di una fabbrica) oppure un professionista (si pensi ad esempio
ad un avvocato o ad un architetto) è ammesso svolgere
prestazioni di lavoro accessorio, ma la somma massima che il
collaboratore può ricevere da ciascun committente non deve
superare i 2.020 Euro netti (somma lorda Euro 2.690). Anche questo
limite viene annualmente ritoccato sulla base dei c.d. Indici ISTAT.
Casi particolari
Ai lavoratori in regime di cassa integrazione guadagni, come in
generale, a tutti i lavoratori che percepiscono dall'INPS una
prestazione integrativa del salario oppure di sostegno al reddito
è consentito svolgere contemporaneamente anche delle
collaborazioni di tipo accessorio.
In questo caso, però, la possibilità è data solo
se il lavoratore percepisce un compenso da lavoro accessorio
complessivo inferiore a 3.000 Euro netti (somma lorda Euro 4.000) per
ciascun anno solare.
Per quanto riguarda gli studenti:
- se iscritti a un ciclo di studi presso un
istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, possono essere
impiegati soltanto durante i periodi di vacanza e il sabato e la
domenica:
- se iscritti a un ciclo di studi presso
l’università e con meno di 25 anni di età non
ci sono limitazioni di periodi.
Per quanto riguarda i lavori agricoli, poi, le regole sul lavoro accessorio si applicano, in linea di massima:
- alle attività lavorative occasionali
nell'ambito di lavori agricoli stagionali se effettuate da pensionati o
da giovani con meno di 25 anni che siano regolarmente iscritti a un
ciclo di studi in un istituto scolastico;
- alle attività lavorative occasionali
nell'ambito di lavori agricoli effettuate in qualunque periodo
dell'anno per i giovani regolarmente iscritti ad un ciclo di studi
universitari;
- alle attività agricole svolte a
favore di soggetti di cui all'articolo 34, comma 6, del D.P.R. 26
ottobre 1972, n. 633 ( si tratta dei produttori agricoli con un certo
volume di affari ), che non possono, tuttavia, essere svolte da
soggetti iscritti l'anno precedente negli elenchi anagrafici dei
lavoratori agricoli.
Infine, occorre ricordare che anche le Pubbliche Amministrazioni
possono utilizzare contratti di collaborazione accessoria a patto che
venga rispettato il patto di stabilità interno (che in sostanza
è il limite di spesa imposto alla pubblica amministrazione dalla
legge per mantenere in ordine i conti pubblici) e che non siano
sforati i limiti stabiliti per il contenimento delle spese di
personale.
La retribuzione e i voucher
Il pagamento del lavoratore in regime di lavoro accessorio avviene
tramite degli appositi voucher, in sostanza dei buoni, che il
committente acquista presso una rivendita autorizzata ( INPS, tabaccai,
uffici postali, banche abilitate ).
Ciascun voucher ha un valore nominale determinato per decreto dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali considerando:
- la media delle retribuzioni delle
attività lavorative simili a quelle che la legge individua
come
lavori accessori;
- il costo di gestione del Attivitào voucher.
Al termine dell'attività lavorativa il committente
consegna al collaboratore tanti voucher quanti sono necessari per
raggiungere la somma dovuta per la prestazione.
Il lavoratore deve quindi presentare i voucher presso un concessionario
del Attivitào voucher che provvederà a liquidarli al lavoratore
pagando il relativo importo.
In considerazione delle particolari e oggettive condizioni sociali di
specifiche categorie di soggetti (caratterizza da situazioni di
disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione
di ammortizzatori sociali per i quali è prevista una
contribuzione figurativa) utilizzati nell'ambito di progetti promossi
da amministrazioni pubbliche, il Ministro del lavoro e delle politiche
sociali, con proprio decreto, può stabilire specifiche
condizioni, modalità e importi dei buoni orari.
Le trattenute sul compenso
Come abbiamo visto il concessionario del Attivitào di pagamento si
occupa di versare direttamente la somma nelle mani del lavoratore nel
momento in cui questo gli presenta i voucher.
Il concessionario, però, ha il compito di curare anche le
trattenute assicurative e previdenziali e quindi la somma che
materialmente viene pagata al lavoratore viene decurtata in quanto
è sottoposta:
- ad una trattenuta INPS pari al 13%
- ad una trattenuta INAIL pari al 7%.
Colf, badanti e baby sitter
Le colf, le badanti e le baby sitter rientrano nella categoria dei c.d.
lavoratori domestici, ovverosia quei lavoratori che prestano la loro
attività per soddisfare le necessità della vita familiare
del loro datore di lavoro. In questo ambito sono compresi anche i
cuochi, i camerieri ecc. La legislazione vigente detta una serie di
norme per regolamentare questo tipo di attività, prendendo in
particolare considerazione l'ipotesi in cui ad essere assunti siano
cittadini non comunitari.
Riferimenti Normativi:
Codice Civile, n. Art. 2240
Legge 28/06/2012, n. 92 - Art. 2
D.Lgs. 25/07/1998, n. 286 - Artt. 5-5 bis, 6-7
Possono essere assunti in primo luogo i cittadini italiani e comunitari. Questi ultimi devono però essere in possesso di:
• codice fiscale
• documento di identità in corso di validità
• tesserino sanitario (che viene rilasciato dall’ASL).
Allo stesso modo possono essere assunti i cittadini non comunitari. Se
questi sono già soggiornanti in Italia è sufficiente che
siano in possesso di un permesso di soggiorno valido anche ai fini
dello svolgimento di attività lavorativa.
Più complessa è la situazione se si intende assumere un
lavoratore non comunitario non ancora soggiornante in Italia. In questi
casi è previsto un procedimento molto articolato.
Il datore di lavoro italiano, infatti, deve ottenere un apposito nulla
osta dal Ministero dell’Interno presentando on line la domanda
attraverso il sito predisposto dal Ministero
(https://nullaostalavoro.interno.it/Ministero/index2.jsp).
Il datore di lavoro, peraltro, deve comunque impegnarsi al pagamento
delle spese di viaggio per il rientro dal lavoratore nel suo paese e ad
offrire un alloggiamento adeguato al lavoratore. Sarà poi
obbligato a comunicare tutte le variazioni del rapporto di lavoro alle
autorità competenti.
Una volta ottenuto il nulla osta questo viene trasmesso alle
autorità consolari italiane nel Paese di provenienza del
lavoratore presso le quali il lavoratore straniero deve presentarsi per
recuperare il visto di ingresso. Una volta entrato in Italia egli
dovrà presentarsi entro otto giorni presso lo Sportello Unico
per l’Immigrazione presso la Prefettura dove dovrà
sottoscrivere il contratto di soggiorno e la richiesta di permesso di
soggiorno che gli verrà poi consegnato a cura della Questura.
Assunzione
Il contratto di lavoro domestico non deve necessariamente essere
stipulato in forma scritta anche se è sempre opportuno
utilizzare un atto scritto per potere così dimostrare il tenore
degli accordi nel caso in cui, in un secondo momento, dovessero sorgere
delle contestazioni.
Il datore di lavoro, una volta assunto il collaboratore domestico, deve
comunicarlo all’INPS entro le ore 24 del giorno precedente a
quello in cui ha inizio il rapporto di lavoro, anche se si tratta di un
giorno festivo.
La comunicazione va sempre effettuata anche nell’ipotesi in cui
il lavoro sia saltuario e discontinuo e a prescindere dalla durata del
rapporto di lavoro.In altre parole se il collaboratore comincerà
il proprio lavoro a partire dal 3 di febbraio, il datore di lavoro
avrà tempo fino alle ore 24 del 2 febbraio per effettuare la
comunicazione.
La comunicazione è dovuta anche quando successivamente il datore
di lavoro e il collaboratore modifichino alcuni dei loro accordi, come
ad esempio nel caso in cui un contratto a tempo determinato venga
prorogato oppure venga trasformato in un contratto a tempo
indeterminato.
La comunicazione non è invece necessaria se il datore di lavoro
utilizza lo strumento contratto di lavoro accessorio nella forma della
c.d. collaborazione occasionale
La procedura di comunicazione può avvenire anche on-line
attraverso il sito internet dell’INPS (http://www.inps.it/) e a
mezzo del call-center dell’istituto.
Il rapporto di lavoroTorna su
Al di fuori dai casi in cui il datore di lavoro inquadri i propri
collaboratori domestici nelle forme della collaborazione occasionale,
il rapporto che si instaura è un rapporto di tipo subordinato,
anche eventualmente a tempo determinato.
Valgono quindi le regole ordinarie stabilite dalla legge così
come integrate dal contratto collettivo nazionale di categoria.
La conclusione del rapportoTorna su
Il rapporto tra il datore di lavoro e il collaboratore domestico può terminare:
• a seguito delle dimissioni del lavoratore: in
questo caso il lavoratore deve rispettare il termine di preavviso
indicato nel contratto collettivo nazionale
• a seguito di un accordo tra il lavoratore e il datore di lavoro
• nei rapporti a tempo determinato nel momento in cui il contratto viene a scadenza naturale
• per licenziamento da parte del datore di
lavoro che normalmente assume le forme del licenziamento disciplinare
dal momento che è difficile ipotizzare casi di licenziamento per
motivazione economica in casi di lavoro prestato in famiglia.
Si è posta la questione se al licenziamento del lavoratore
domestico con contratto a tempo indeterminato si applicano le norme
introdotte con la c.d. Riforma Fornero che prevede, in caso di
interruzione del rapporto di lavoro per cause diverse dalle dimissioni
o dall’accordo delle parti, che il datore di lavoro sia tenuto a
versare un contributo che ha la finalità di finanziare gli i
nuovi ammortizzatori sociali ed in particolare l’ASPI; il
Ministero del lavoro e l’INPS hanno precisato che le famiglie
sono escluse dal pagamento del contributo in caso di licenziamento dei
collaboratori domestici. Va tuttavia sottolineato che sul punto la
legge Fornero non esclude dal contributo specifiche categorie di datori
di lavoro.
A partire dal momento in cui cessa il rapporto di lavoro il datore di lavoro ha tempo 5 giorni per comunicarlo all’INPS.
Collaborazioni occasionali :
Le collaborazioni occasionali sono rapporti di lavoro che legano un
lavoratore autonomo e un datore di lavoro ( committente ) e che non
presentano le caratteristiche della continuità e per questo si
differenziano dalle collaborazioni a progetto. Sono consentite soltanto
se la durata della collaborazione non supera dei livelli stabiliti
dalla legge e se la retribuzione che percepisce il lavoratore non
supera i 5.000 euro all'anno.
Riferimenti Normativi:
Legge 28/06/2012, n. 92 - Art. 1
Legge 04/11/2010, n. 183 - Art. 50
D.Lgs. 10/09/2003, n. 276 - Art. 61
Le collaborazioni occasionali si differenziano dal lavoro subordinato
perché il lavoratore si trova in posizione di autonomia rispetto
al datore di lavoro. Può e deve quindi eseguire il proprio
lavoro senza essere sottoposto al potere direttivo dal datore di lavoro
e senza poter subire da questo delle sanzioni disciplinari. Si
differenziano altresì dalle collaborazioni a progetto
perché (pur avendo in comune con queste la caratteristica
dell'autonomia del lavoratore rispetto al committente) non hanno il
carattere della continuità.
In buona sostanza sono rapporti di lavoro occasionali ed estemporanei
sia sotto l'aspetto della durata che sotto l'aspetto del tipo di
attività che viene richiesta.
Condizioni per poter stipulare un contratto di collaborazione occasionale
In linea di massima, dopo l'entrata in vigore della c.d. Legge Biagi
(D.Lgs. n. 276 del 2003), i rapporti di lavoro che non hanno i
caratteri del lavoro subordinato dovrebbero essere regolamentati come
rapporti di collaborazione a progetto.
Tuttavia la legge consente di concludere di contratti di collaborazione
occasionale tutte le volte che il rapporto non ha la caratteristica
della continuità.
Secondo la disciplina di legge non hanno il carattere della
continuità i rapporti tra un committente e un collaboratore che
nell'arco dell'anno solare:
- non durano più di 30 giorni
- se si tratta di attività che rientrano
nella categoria dei Attività di cura e assistenza alla persona non
occupano il collaboratore per più di 240 ore
- non prevedono un compenso complessivo superiore a 5.000 Euro.
Anche se uno solo di questi parametri viene sforato
il committente deve stipulare con il collaboratore un contratto di
collaborazione a progetto.
Forma del contratto e svolgimento dell'attività lavorativa
La legge non richiede che il rapporto di collaborazione occasionale
venga formalizzato in un atto scritto. In altre parole il committente e
il collaboratore possono accordarsi anche a voce sulle condizioni che
regoleranno il loro rapporto.
In ogni caso, tuttavia, è sempre consigliabile che gli accordi
vengano messi per iscritto per una tutela migliore di entrambe le parti
in caso si verificassero dei problemi.
Il rapporto, poi, si svolge con le caratteristiche proprie di una
collaborazione tra un datore di lavoro e un lavoratore autonomo.
Quindi il committente non può in linea di massima vincolare il
collaboratore ad orari o schemi per lo svolgimento dell'attività
lavorativa, salve ovviamente le esigenze particolari che sono imposte
dal ramo nel quale la singola attività viene svolta.
Si pensi al caso del collaboratore che deve svolgere delle rilevazioni
all'interno di uno stabilimento che osserva degli orari di apertura e
chiusura. Va da se che il collaboratore autonomo non potrà che
effettuare queste attività negli orari di apertura.
Aspetti fiscali e contributivi
Dal punto di vista delle trattenute IRPEF, il lavoratore occasionale
è soggetto a ritenuta d’acconto per l’ammontare del
20% del compenso lordo pattuito.
Gli obblighi di contribuzione (ossia i contributi per la pensione e
l’assistenza) sono invece previsti soltanto per l’ipotesi
in cui il reddito complessivo del collaboratore superi la soglia dei
5.000 euro all’anno.
Va precisato però che per calcolare se il limite dei 5.000 Euro
annui viene rispettato o meno occorre calcolare tutti i redditi da
lavoro occasionale prodotti nell'arco dell'anno solare da parte del
collaboratore anche se le somme sono percepite da committenti diversi.
Lavoro intermittente ( c.d. lavoro "a chiamata" o "job on call" )
Con questa tipologia di contratto il lavoratore si mette a disposizione
del datore di lavoro per l'esecuzione di un'attività che non
può essere continuativa.
In pratica, si tratta di un contratto di lavoro subordinato con il
quale il lavoratore si mette a disposizione del datore di lavoro per
l'esecuzione di attività a carattere discontinuo o intermittente
(di qui la sua denominazione).
Il datore di lavoro si rivolge quindi al lavoratore soltanto nei
momenti in cui ha la necessità che questa attività venga
svolta.
Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo
svolgimento di prestazioni con appunto carattere discontinuo o
intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti
collettivi oppure per periodi predeterminati nell'arco della
settimana, del mese o dell'anno.
In caso di malattia o di altro evento che renda temporaneamente
impossibile rispondere alla chiamata, il lavoratore è tenuto a
informare immediatamente il datore di lavoro, specificando la durata
dell'impedimento.
A chi è destinato
Può essere stipulato da tutti i lavoratori, salvo eventuali limiti di legge, e in ogni caso dai lavoratori con
- meno di 24 anni di età, ma in questo caso la prestazione
lavorativa deve essere effettuata entro il venticinquesimo anno di
età;
- più di 55 anni di età.
Può essere stipulato da qualunque impresa tranne quelle che non
hanno effettuato la valutazione sui rischi in materia di prevenzione
degli infortuni sul lavoro.
Non può essere utilizzato nella Pubblica Amministrazione.
In ogni caso, il contratto di lavoro intermittente è ammesso,
per ciascun lavoratore (con il medesimo datore di lavoro e con
esclusione dei settori del turismo, pubblici esercizi e spettacolo),
per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate di
effettivo lavoro nell'arco di 3 anni solari. Se questo periodo viene
superato il rapporto si trasforma in un contratto di lavoro a tempo
pieno e indeterminato.
I casi in cui non è possibile utilizzarlo
Non si può utilizzare il contratto di lavoro intermittente:
- per sostituire lavoratori che stanno esercitando il diritto di sciopero
- nelle imprese che nei sei mesi precedenti hanno
effettuato licenziamenti collettivi di lavoratori con le stesse
mansioni di quelli che si vorrebbe assumere con contratto a chiamata (a
meno che gli accordi sindacali non prevedano delle deroghe) (vedi la
scheda sul Licenziamento collettivo).
- nelle imprese in cui è in vigore la cassa
integrazione per lavoratori con le stesse mansioni di quelli che si
vorrebbe assumere con contratto a chiamata (a meno che gli accordi
sindacali non prevedano delle deroghe) (vedi la scheda sulla Cassa
integrazione).
L'indennità di disponibilità
La caratteristica del contratto di lavoro intermittente è
appunto quella per la quale il lavoratore si mette a disposizione del
datore di lavoro in attesa della chiamata in Attivitào.
La legge quindi prevede che quando il lavoratore si impegna
contrattualmente a rispondere alla chiamata il contratto deve prevedere
una forma di indennità, detta indennità di
disponibilità, per i periodi nei quali il lavoratore garantisce
la propria disponibilità in attesa di essere utilizzato.
L'indennità può essere suddivisa in quote orarie.
L'importo minimo dell'indennità è stabilito dai contratti collettivi.
Quando il lavoratore si trova in condizione di temporanea
indisponibilità deve segnalarlo al datore di lavoro altrimenti
perde il diritto all'indennità di disponibilità per un
periodo di quindici giorni, salvo sanzioni diverse contenute nel
contratto individuale.
Per il periodo di indisponibilità il lavoratore non ha diritto all'indennità di disponibilità.
Contenuto del contratto
Il contratto di lavoro intermittente deve essere concluso in forma
scritta. Non è quindi possibile che il datore di lavoro e il
lavoratore in questo ambito si accordino oralmente.
Il contratto, inoltre, deve specificare:
l'attività da svolgersi
la durata
i presupposti che consentono di utilizzare questo tipo di rapporto di lavoro
il luogo in cui andrà svolta l'attività
le modalità con le quali il lavoratore si mette a disposizione dell'imprenditore
il preavviso di chiamata (che non può essere inferiore ad un giorno lavorativo)
la retribuzione e i tempi di pagamento
l'entità della indennità di disponibilità e i tempi di pagamento
le modalità attraverso le quali il datore di lavoro effettua la chiamata
le modalità attraverso le quali il datore di lavoro rileva la presenza del lavoratore
le misure di sicurezza specifiche eventualmente necessarie per lo svolgimento dell'attività.
Anche in questo caso largo spazio è lasciato alla contrattazione
collettiva che può stabilire requisiti diversi e ulteriori
rispetto a quelli elencati.
Prima dell'inizio della prestazione lavorativa (o di un ciclo di
attività integrato di durata non superiore a trenta giorni) il
datore di lavoro deve comunicarne la durata alla Direzione territoriale
del lavoro competente per territorio. La comunicazione può
avvenire tramite sms, fax o e-mail. Se il datore di lavoro non provvede
subisce una sanzione amministrativa per ciascun lavoratore per il quale
ha omesso la comunicazione.
Il trattamento economico, normativo e previdenzialeTorna su
Il lavoratore “a chiamata” riceve una retribuzione per il periodo in cui presta il proprio Attivitào nell'impresa.
Per questi periodi non può ricevere un trattamento economico
inferiore rispetto ai lavoratori di pari livello (ovviamente a
parità di mansioni svolte).
L'attività effettivamente eseguita dal lavoratore determina quindi:
la retribuzione globale e le singole componenti
le ferie
i trattamenti per malattia, infortunio e malattia
professionale (vedi le schede su Malattia professionale e Prevenzione
dei rischi sul lavoro)
la maternità
i congedi parentali. (vedi la scheda sul Congedo parentale)
Per il periodo in cui il lavoratore resta semplicemente a disposizione
della chiamata non spettano trattamenti economici e normativi salvo
l'indennità di disponibilità.
Contratti già sottoscritti al momento dell’entrata in vigore della Legge Fornero
La riforma Fornero ha previsto un regime transitorio per i contratti di
lavoro intermittente già sottoscritti dal lavoratore e dal
datore di lavoro prima dell’entrata in vigore della riforma.
Infatti se gli accordi non sono compatibili con le innovazioni
contenute nella riforma, il contratto cessa di produrre effetti il 1
gennaio 2014.
Per maggiori informazioni non esiti a contattarci.